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gabba gabba hei 2002 - On cartooning

Così cantavano i Ramones nel lontano 1977. Riprendendo un motivetto accennato nel film Freaks di Tod Browning e cantato dai mostri del circo Barnum ingaggiati per interpretare se stessi in un intrigo rosa e noir che sarebbe entrato nella storia del cinema.
Anni dopo Freaks, nasceva il punk, fenomeno variegato di provocazione, energia propulsiva e creatività neo dadaista. Joey Ramone assumeva il canto dei freaks "Gabba gabba hey" e rendeva omaggio al lato "minore" di noi stessi, al lato idiota e mostruoso che noi tutti ci portiamo dentro. Così, in questa estasi riformatrice, la musica, il rock'n'roll versione Ramones, veniva ridotta alla sua quintessenza mi-la-si, minimalissima, eppure sempre energetica e indispensabile. Nasceva l'epopea. Era il Punk americano, ironico ed eccentrico, tanto diverso da quello inglese che, pure lui, (piss off/destroy) venerava un certo culto della demenza. I genialoidi DEVO, sempre nel 1977, sempre in America ("provenienza Akron, capitale del pneumatico" come amavano dichiarare, quasi si trattasse di una anti pubblicità), aprirono un altro vero e proprio fronte elaborando una reale cosmogonia del demente a partire da Boogie boy e dall'inno dell'epoca che fu la canzone fatta di frustate ritmiche e coretti compiaciuti intitolata direttamente Mongoloid.
"Mongoloid mongoloid happier than you and me", (Mongoloide mongoloide più felice di me e di te) cantavano sornioni i Devo.
Si pensava in termini totali, erano spettacoli che coinvolgevano diverse arti: musica, cinema pittura e poesia. In un ciclo che sembrava del tutto naturale, la pianta del Punk aveva dato il frutto: era nata la new wave.

L'appellativo freak anche negli anni sessanta era stato usato senza badare a spese. Lo avevano ricevuto, regalo non si sa quanto gradito, gli artisti pop a partire dalle loro prime mostre nel 1962. Gli artisti della fetta di torta (slice of cake artists), come venivano spregiativamente definiti, facevano paura all'establishment conservatore dell'arte e vennero emarginati, per via del loro aspetto fisico (capelli lunghi, vestiti sgargianti) e delle loro abitudini (alcol e droghe). Freakniks e beatniks era la simpatica definizione che perlopiù ricorreva. La società "per bene" si difendeva usando il linguaggio per emarginare. Il mostro era il diverso, il lontano da sé. Tuttavia non si riuscì nell'impresa di fare scomparire il fenomeno, dato che quella stessa generazione sarebbe confluita nel movimento del flower power alla fine degli anni sessanta e avrebbe preso volontariamente l'appellativo di freaks.

Nel cinema d'altronde, l'idea della diversità ha sempre affascinato se pensiamo che dal mostro di Frankenstein (senza parlare delle varie mummie e vampiri) sino a Elephant man passando per Johnny il bello, via su fino a Dark man, il nostro immaginario si è nutrito di mostruosità e malinconie del diverso. Cresceva la società americana e cresceva il mito rotondo e rassicurante del benessere. Parallelamente la coltre rassicurante del "va tutto bene" veniva squarciata da una zampata metafisica, era il mostruoso che imperava nei nostri sogni di celluloide. Mostro dopo mostro si è giunti oggi alle raffinate prospettive di David Lynch; incubi contemporanei ben più sottili e serpeggianti. Pensiamo a Lost Highway e Mulholland Drive nei quali il mostruoso ha sembianze umane. All'apparenza tutto normale ma, attenzione ci avverte Lynch, è il quotidiano a essere la culla della mostruosità.

Moderno sciamano (una definizione che il regista sembra piuttosto gradire) Lynch ci conduce per sentieri di racconto tesi ad annullare le nostre certezze logiche. Come nella migliore tradizione mistica il perdersi è sinonimo di espansione della coscienza. La psichedelia come possibilità di "sogno controllato" che ci aiuta a vedere oltre. Ed ecco che sorge il "tremendo", che come ci dice la mistica induista è ultraumano, il divino insomma. Qualcosa che va oltre il mito della bellezza bidimensionale e finita così come l'uomo la concepisce.
Il diverso è stimolo per varcare la fatidica soglia e scoprire cosa c'è oltre.

In tutto questo, ovviamente, il fumetto dice la sua. La pista dell'avventura classica, come da decenni si vede nelle pagine stanche e fruste in quasi tutti gli scaffali nostrani, ha ceduto il passo a un altro tipo di produzione, che gli preferisce una sorta di reportage del quotidiano. La vita di tutti i giorni viene registrata con atteggiamenti diversi dall'Europa al Giappone. Se Taniguchi o Tsuge propongono un atteggiamento lirico che vuole fare sortire la poesia di una vita "non eroica" in Inghilterra Andi Watson o in Canada Michael Rabagliati propongono una visione della quotidianità che utilizza il deforme, la caricatura per esempio, per definire e raccontare.
Nello stile occidentale dei due autori si trovano tracce evidenti di un disegno colto che fa senza dubbio riferimento alla scuola del New Yorker . Uno stile raffinato e retrò che propone storie di tutti i giorni con lo stile delle barzellette di quando eravamo dei bambini.

Questo filone del quotidiano vive una sua vita parallela rispetto all'indagine di una mostruosità che invece popola le pagine di artisti più dichiaratamente americani come Charles Burns, Daniel Clowes o Chris Ware.
La loro derivazione dalla matrice pop è molto evidente e il loro intento è diretto: fare da specchio alla società dei consumi americana e evidenziare dinamiche e contraddizioni. Attraverso un aspetto gradevole e graficamente accativante, come già fecero gli artisti della fetta di torta negli anni sessanta, Ware, Clowes e Burns (solo per fare un esempio) raccontano le loro storie in romanzi disegnati che dipingono l'America del disagio profondo.
Artista dell'eccesso e della mostruosità è Suehiro Maruo, che pure lui, non a caso, esplora i recessi inviolabili del malessere nipponico. Con adolescenti criminali e oni baba (sorta di streghe dell'immaginario giapponese) che ritornano in un continuum temporale del tutto ossessivo che parla di una vita impossibile da affrontare.

Nella storia del pulp, la letteratura popolare americana, come nella storia del cinema asiatico, il racconto del mostruoso pare non cedere di un millimetro dal posto d'onore che gli autori e il pubblico gli hanno conferito da tempo.

E noi, nel nostro piccolo abbiamo deciso un modesto omaggio, segnalando rotte possibili e cercando di fare il punto su "dove ci troviamo" nella mappa dell'immaginario contemporaneo rispetto al nostro amato linguaggio, il fumetto appunto. Sono spunti, noi ci limitiamo a osservare e prendere appunti.

Il nuovo racconto francese si bagna nelle atmosfere oniriche di un primo surrealismo e simbolismo. Nelle pagine di questo numero troverete anche questo (grazie a David B.). Nella parte scritta abbiamo cercato con sforzo di sintesi di fare un bel quadretto che parte dal vero (come le vecchie pitture). Ecco la ballata dell'uomo aragosta e famiglia (anche i freaks hanno diritto a una loro quotidianità) sino ad arrivare al celebre film di Tod Browning, ma ci siamo interrogati anche sul lato oscuro del cartone animato. E kramsky che con la sua rubrica patafisica ci porta un altro delitto "memorabile". Dove lo mettiamo?
Ci sono pagine nuove, per noi della coconino, eh sì; diamo il benvenuto a Gabriella Giandelli, Jason Lutes, Matt Broersma, Giacomo Nanni, Sergio Ponchione, Stefano Zattera, Massimo Giacon e Davide Toffolo.
Non è facile presentarsi sempre con nuove firme e nuove visioni ma ce la stiamo mettendo davvero tutta. Black, lo ripetiamo è la riserva indiana nella quale i racconti dei nostri autori vedono la luce, magari con anticipazioni di volumi che di qui a qualche anno vedranno la luce. Ma non è solo questo, ovviamente. E' uno spunto per esplorare quanto di meglio a nostro avviso sta succedendo nel panorama internazionale dei comics, senza dimenticare i nostri autori che di questo panorama, tradizionalmente, sono parte attiva e ben apprezzata.
Bene ora, buona lettura.