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Il giorno in cui incontrai Dio 2005 - Memorabilia

Il tempo è ciclico, mi pare fosse Vico a dirlo. Io oggi vivo un piano parallelo a quello della fine degli anni settanta. Accadono cose che sono dei dejavu sempre più frequenti. Così, per esempio, mi capita di disegnare cose che in parte ho già disegnato in quel periodo.

Una scena del porto penso di disegnarla in un paio di ore e invece si mangia l’intera giornata. Le pagine seguono una musica loro e io non posso fare altro che ballare a tempo. Disegno scene tropicali che fanno parte della mia storia, delle mie visioni, legate come sono alle mie radici. Un amico: Daniele Lelli, quando leggeva Goodbye Baobab nei primi anni ottanta, mi diceva che veniva assalito da un caldo soffocante; si doveva levare il maglione. Potere dell’evocazione! (Questo l’ho sempre considerato un grande complimento.)

In effetti mi muovo a mio agio nel definire le atmosfere lucertolose del Parador. Cerco di rappresentare la luce abbacinante che ho visto balenare da quando ero piccolo, riflessa nella sabbia candida del Poetto (la Copacabana di Cagliari). I ricordi sono ingrediente fondamentale per definire i luoghi di una mitologia personale; disegnare certe scene è un tuffo verticale nella memoria. Di una memoria collettiva, talvolta,un passato che spesso non ho neppure vissuto, tanto è antico. Eppure quando disegno le cose che si materializzano sul foglio, quando tutto va bene, suonano “vere”.

Questa riflessione mi fa pensare a un viaggio fatto di recente. Ero al festival di Bastia, e ho fatto un incontro pubblico con Marjane Satrapi e altri autori. In quell’incontro si parlava di verità, e lei, Marjane, parlava di avvenimentiri costruiti più o meno fedelmente. Io rimago attonito quando sento queste affermazioni dato che non credo che sia bene confondere la verità con la cronaca.

Per me la verità è molto più profonda e non ha nulla a che vedere con una ricostruzione filologica degli atti, ma con un senso profondo dell’esistere. Scrivere onestamente, come diceva Chandler, significa, probabilmente, riuscire a mentire con la massima sincerità possibile. Per questo non mi interessa tanto l’autobiografia. Il più grande ballista del secolo scorso, Fellini, è per me maestro di sincerità. Amarcord, che ha certamente diversi ricordi di vita vissuta, è sceneggiato insieme a Tonino Guerra, eppure passa per opera autobiografica.

Nella storia che sto per pubblicare adesso, ci sono numerose scene che si svolgono in Giappone, ma molti degli avvenimentinarrati sono ricordi della mia infanzia. Ora tutto questo è banale, se non fosse che un certo appiattimento culturale e una certa confusione lascerebbero ad intendere che esistono due tipi di narrazione, quella autobiografica e la fiction vera e propria, cosa che, a mio modesto parere, è del tutto falsa.

Osservo le tavole di Breccia e non posso non essere colpito dall’enorme senso di verità che Alberto Breccia riusciva a infondere nelle sue macchie. Sono macchie che obbediscono. Segni che partono in tutte le direzioni e che inventano l’indicibile; la trasparenza della pelle, per esempio. Tutto questo mi impressiona al punto che a volte non riesco a prendere sonno. Il genio fa paura e assume aspetti sovraumani, ci avvicina al divino.

Mai confondere la tecnica con il talento.

Ho avuto l’onore di prensentare Breccia in un incontro pubblico, quando ero un giovane arrogante e di successo, quando ero un idota di vent’anni che credeva di avere capito molte cose. Nella mia mediocrità però, probabilmente, riconoscevo la grandezza quando questa mi si palesava davanti e Breccia prese a volermi bene. Era come un padre per me. Mi diceva “è semplice igor” mentre mi spiegava che lui inchiostrava con una lametta da barba. Breccia, come tutti i grandi era un uomo modesto.

Io non capivo neppure come si teneva in mano una lametta, con lo scopo di disegnare e lui si era inventato che con la lametta si poteva inchiostrare Mort Cinder (ed era passato alla storia del fumetto).

Quel fumetto lo ammiro, lo studio, cerco di penetrarvi con tutti i cavalli di troia che possiedo: l’intelletto, la passione, la devozione. Nulla. Rimane monolitico e intonso, nella sua bellezza. Sono passati quasi trent’anni da quando trascorrevo ore e ore a contemplarlo. Così, conosciuto Breccia, dovevo andare sino in fondo per capire, per farmi una ragione.

Tanto più ci sentiamo piccoli tanto più siamo increduli.

E io chiesi a Breccia di farmi un disegno. Il solo metodo che conosco per vedere come si costruisce, per sentire più vicino, alla portata, un autore che apprezzo. E lui si fece un autoritratto giocoso, in pochi secondi. La matita filava senza la minima esitazione. Vederlo disegnare era come vedere palleggiare Pelé. Chi ha visto il Brasile di quel periodo capisce cosa voglio dire.

Carmelo Bene afferma che un vero attore non recita un testo, un vero attore è quel testo. Il rapporto di Breccia con il disegno trascendeva il disegno, il racconto, il fumetto stesso. Breccia, come pochi altri era genio, e faceva paura per questo suo essere stratosfericamente al di sopra di tutti noi. Ma era modesto, come chi sa di essere grande e che sopra di lui ha l’infinito.

Parigi martedì 12 aprile 2005, ore 2:57.

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